«L’ALCHIMISTA» DI PAULO COELHO E LA VERA ALCHIMIA: DALLE PAROLE ALL’ORO… (recensione di Vittorio Panicara).

La storia di un giovane pastorello andaluso, che va in cerca di un tesoro e raggiunge le piramidi d’Egitto dopo tante peripezie, è il contenuto essenziale di un romanzo che la seconda di copertina (Paulo Coelho, «L’Alchimista», La nave di Teseo, Milano 2017) annuncia come un «apologo spirituale». Pubblicato nel 1995, il libro è stato un successo planetario e ha dato notorietà internazionale all’autore, insignito in seguito di numerosi riconoscimenti. Sarebbe un capolavoro della letteratura mondiale (sul numero di lettori, forse cento milioni, e di lingue in cui è stato tradotto non c’è accordo). Si tratta di una vicenda fantastica basata su di un rito di iniziazione, di “una favola per adulti” che si innesta in un discorso che tocca temi come la felicità e la libertà personale. Lo stesso insegnamento è riducibile ad alcune formule assai semplici: realizza i tuoi sogni, ascolta il tuo cuore, che conosce tutte le cose. L’andamento circolare della narrazione, l’intonazione popolare e le ripetizioni insistite, in effetti, rendono il senso di una favola pervasa di magia e avulsa da qualsiasi contestualizzazione storica. E all’elementarità della vicenda corrisponde l’estrema facilità della lingua.

Il contenuto.

Tutti noi abbiamo dei sogni e il pastorello Santiago, poverissimo, non sfugge alla regola, ma deve verificarsi un’apparizione sovrannaturale per fargli capire qual è il suo scopo nella vita (nelle parole del libro: la sua «Leggenda Personale»). Il ragazzo ha rinunciato al sacerdozio per viaggiare ed è per questo che fa il pastore. A Tarife una vecchia zingara interpreta un suo sogno (in cui un bambino lo ha condotto alle piramidi egizie) e gli predice la conquista di un tesoro. Successivamente, un anziano, riflettendo su di un libro che Santiago sta leggendo, discute con lui sull’incapacità degli uomini a scegliere il proprio destino (tema centrale del romanzo); dice di essere il re di Salem e di chiamarsi Melchidesec. Il vecchio, altro suo destinatore, gli affida come missione il perseguimento della sua Leggenda Personale, unico dovere degli uomini, per la quale dovrà affrontare molte difficili prove. Il ragazzo decide così di affrontare il viaggio verso l’Egitto e passa in Africa. Rifiuta così qualsiasi accomodamento o rinuncia. Il viaggio è la sua missione e al tempo stesso il teatro della sua “prova”, che in terra nordafricana e di un Islam molto semplificato procede attraverso varie tappe: a Tarife viene derubato di tutto il suo denaro; lavora a lungo da un Mercante di Cristalli (fin qui la prima parte e l’inizio della seconda); con l’aiuto di un libro e di due pietre magiche – Urim e Tummin – regalategli dal re di Salem decide di unirsi a una carovana diretta all’oasi di El-Faiyûm e attraversa il deserto. Ha fatto amicizia con un inglese che vuole diventare alchimista (è questo il primo cenno a quello che, stando al titolo, dovrebbe essere il tema centrale del romanzo, e che invece non è). La seconda metà del libro è occupata dal viaggio della carovana nell’immensità del deserto, quando, grosso modo a metà del testo, appare finalmente l’Alchimista, nel ruolo di aiutante di Santiago e dell’inglese. L’incontro nell’oasi con la giovane Fatima è decisivo, giacché in lei c’è l’Amore, essenza del Linguaggio del Mondo. Il modo in cui si realizza un tale “colpo di fulmine” con l’anima gemella (testuale!) ha qualcosa di “già visto”, ma si ammanta di una patina poetica, evidente quanto discutibile: quando la futura amata incontra il futuro amante, e i loro sguardi si incrociano, il passato e il futuro perdono ogni importanza (sic); in quel momento ci si accorge che tutto ciò che accade sulla Terra è stato scritto dalla medesima Mano, quella stessa mano che infonde Amore… E si tratta di un amore distinto dal possesso: sarà Fatima, in quanto donna del deserto (perché?), a insegnarlo a Santiago. Le peripezie successive appartengono al genere avventuroso, con lo scoppio della guerra nelle oasi, ed è l’aiuto dell’Alchimista che salva Santiago in varie occasioni, anche con il ricorso a fenomeni sovrannaturali. Ma tale ausilio è volto principalmente a far sì che il cuore del protagonista «si compenetri» nell’Anima del Mondo e raggiunga così la perfezione. Dopo aver lasciato l’oasi e Fatima, andando verso Levante, l’Alchimista e Santiago raggiungono un monastero copto e qui si lasciano, ma l’Alchimista dà al pastorello preziose indicazioni per trovare il suo tesoro. Ormai il ragazzo dialoga con il Vento e con il Sole e a un certo punto si accorge di far parte dell’Anima di Dio: è pronto per la rivelazione finale. In prossimità delle Piramidi, dopo una disavventura con alcuni malviventi, che gli risparmiano la vita, capisce dalle parole del loro capo che il tesoro era già nel luogo da cui ha preso inizio l’intero cammino di Santiago: la chiesa diroccata in Spagna con il grande sicomoro. Nell’Epilogo, tornato nella chiesetta abbandonata, Santiago scava e trova un baule ricolmo di monete, pietre preziose e oggetti d’oro. Sente il richiamo di Fatima nel vento e si propone di raggiungerla…

Quale “filosofia”?

Il sommario delle vicende di Santiago, così vario e al tempo stesso farraginoso, è in realtà poco convincente. Gli eventi che si succedono non mostrano una grande logica interna: perché due persone (la vecchia zingara e il re di Salem) e non una gli indicano il percorso da compiere? A quale scopo il furto di cui è vittima Santiago a Tarife? Qual è il ruolo dell’inglese? Cosa giustifica l’arrivo dei banditi, che poi permettono al protagonista di trovare il tesoro? Qual è la relazione tra l’Alchimista e Santiago, che di alchimia (almeno prima dell’incontro con l’inglese) neppure si interessa? Le domande potrebbero continuare. Tali carenze potrebbero essere colmate considerando come fondamentale e necessario il ritorno “circolare” della storia al punto di partenza. Il suo significato, cioè, potrebbe farci dimenticare la gratuità della fabula. E la morale della favola risiede dunque nel ritorno alla chiesetta diroccata andalusa e nel ritrovamento del premio: ciò vuol dire che noi uomini abbiamo tutti il nostro tesoro sepolto, basta rendersene conto, cercando nel mondo la realizzazione dei nostri scopi. Dunque, la debole trama del romanzo deve trovare la sua ragion d’essere nella “filosofia” dell’autore. Già, ma quale?

Non mancano nel testo delle vere e proprie “pillole di saggezza”, per esempio sul valore dei presentimenti (rapide immersioni dell’anima nella corrente universale della vita…dov’è possibile apprendere il corso degli eventi, poiché tutto è già scritto. Maktub…), da includere nei segnali che Santiago raccoglie nel corso degli eventi e che lo guidano verso la meta finale; o sulla comprensione del Linguaggio Universale, quell’idioma privo di parole. L’autore insiste spesso sull’Anima del mondo e il destino degli uomini (la Terra è viva e possiede un’Anima…agisce sempre a nostro favore, ma spesso gli uomini non se ne accorgono), oppure su altri concetti, magari tratti dall’alchimia, come la Pietra Filosofale e l’Elisir di lunga vita. E non manca la sfiducia verso forme di sapere tradizionali: Quando gli uomini cedono al fascino dei disegni e delle parole scritte, finiscono per dimenticare il Linguaggio del mondo (importante questo disconoscimento del ruolo della cultura scritta per capire meglio la prospettiva in cui si muove Coelho). Perfino la guerra è provocata da un malinteso: gli uomini non hanno capito che l’oro è soltanto il simbolo estremo dell’evoluzione (espressione alquanto criptica). Ma la quarta di copertina ci offre il contributo “filosofico” (in realtà adatto a qualche zuccherosa canzonetta) che dà forma all’iniziazione di Santiago (e del lettore!) e che forse esprime il messaggio principale del testo: Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose (dove, a ben vedere, la ridondanza del pronome tradisce l’approssimazione della traduttrice Rita Desti, visto che Ascolta il tuo cuore. Conosce tutte le cose sarebbe più accettabile in italiano).

Il problema vero de «L’Alchimista» non è la lingua, ma il presunto “messaggio” dell’autore. Il prologo ci aiuta poco, dato che non è chiaro il motivo del riferimento alla narrazione del mito di Narciso da parte di Oscar Wilde: forse la vera sede della bellezza del giovane, rintracciabile nel fondo degli occhi… Una banalità spacciata per verità universale. Nella prefazione, piuttosto, Coelho ci avverte di aver studiato per undici anni l’alchimia, materia per lui affascinante soprattutto nella ricerca dell’Elisir di lunga vita. L’interesse per la magia, la telepatia e il misticismo lo ha portato anni addietro ad alcune riflessioni che sono centrali nel romanzo: In questa sorta di esilio spirituale, appresi molte cose importanti: che accettiamo una verità solo quando prima l’abbiamo negata dal profondo della nostra anima, che non dobbiamo sfuggire al nostro destino e che la mano di Dio è infinitamente generosa, malgrado il Suo rigore. Più tardi Coelho è uscito dal suo periodo di crisi grazie all’insegnamento del Maestro dell’ordine (a quanto pare un gruppo occulto cattolico) RAM, che lo ha sensibilizzato all’importanza della Pietra Filosofale e gli ha fatto capire che solo il linguaggio simbolico è l’unico mezzo per arrivare all’Anima del Mondo (che niente di meno equivarrebbe all’inconscio collettivo di Jung) e compiere la Grande Opera. In questo Coelho, che tra radici gesuitiche, New Age, esoterismo, occultismo e forse adesione alla massoneria, è un esempio di eclettismo estremo, non propone un modello razionale di realtà, e al posto dell’analisi ci offre solo luoghi comuni, sofismi, riferimenti esoterici e frasi a effetto senza alcuna spiegazione logica. Sì, come vuole l’autore, «L’Alchimista» è veramente un romanzo simbolico, ma cosa possano rappresentare i suoi strani simboli non lo si capisce affatto, a meno di non prendere per buone e alla lettera le sue affermazioni superficiali e banali. Inutile, in realtà, risalire a una forma particolare di panteismo, o di fatalismo, o di volontarismo, o a un (buffo) ottimismo cosmico, perché l’autore non ha mai fatto sue concezioni ideali che siano logiche e compiute, magari desunte da correnti o autori di filosofia, dai quali del resto è lontano più che mai. La sua Anima del Mondo non è l’anima cosmica del Timeo platonico o dei neoplatonici, e nemmeno Giordano Bruno c’entra qualcosa; il suo ottimismo non è desunto da Leibniz, anche se pare voglia dirci che viviamo “nel migliore dei mondi possibili”; la sua predeterminazione degli eventi – tutto è stato già scritto – non rimanda a Borges, come vorrebbe l’autore, e nemmeno all’”eterno ritorno” di Nietsche (altro autore che Coelho “mastica” poco), ma rimanda semmai a un fatalismo che sembra scimmiottare l’islamismo; la sua Pietra Filosofale ci ricorda più che altro qualche film avventuroso di successo.

Il messaggio di Coelho, se esiste, “sa” di occultismo e non rimanda a nessuna impalcatura ideale, a nessuna ideologia vera e propria. È come se l’autore, pur affrontando temi filosofici molto frequentati in letteratura, cancellasse con un tratto di penna l’intera storia delle idee e delle lettere, e volesse iniziare il lettore a credenze più o meno esoteriche, frutto di mitologie confuse e di una disciplina prescientifica come l’alchimia.  Con il risultato pratico finale di convertire in oro non i metalli, ma le sue stesse parole…

Una favola molto accattivante.

In effetti, fama e successo hanno portato a Coelho un fiume d’oro… Ma perché un successo mondiale così strepitoso, se il libro, per contenuti e idee, ha uno scarso valore intrinseco?

Intanto una “favola” nella narrazione c’è, con tanto di morale; è piuttosto sconnessa, è vero, ma intanto può capirla qualunque lettore, dato anche il livello basico della lingua. C’è una cornice tipo «Le mille e una notte», con tratti di forte verosimiglianza che possono attrarre chiunque. La vicenda si svolge a tappe e descrive passo passo la maturazione progressiva del protagonista; i ruoli dei vari personaggi sono più che evidenti, e a chi legge non è richiesto nessuno sforzo. Quanto a modalità narrativa, l’io narrante onnisciente riporta la vicenda e solo ogni tanto ne spiega il senso, esprimendo direttamente le posizioni dell’autore; i fatti, peraltro, sono sempre chiari nel loro svolgimento. Inoltre, se l’io che narra “è” l’autore, rendendo elementare l’interpretazione del testo, il destinatario ideale è un lettore che sappia immedesimarsi con Santiago, protagonista “simpatico” per eccellenza, condividendone il senso della ricerca e la gioia per il premio finale. Per un lettore partecipe delle sorti del pastorello la storia si fa sempre più avvincente ed emozionante, accompagnata da considerazioni come quelle sull’Anima del mondo, o sulla Leggenda personale, che mai, fuori della lettura de «L’Alchimista», riuscirebbero a interessargli. La fascinazione della narrazione ottunde la sua capacità ragionativa e distoglie la sua attenzione critica. Ma il testo, nonostante ciò, implicita un lettore non superficiale, che si pone i problemi legati alla felicità, alla libertà e al senso della vita, ma che, soggiogato dall’accattivante favola di Santiago, è portato ad accettare con soddisfazione soluzioni facili, quasi puerili. Per di più, se ci rendiamo conto che le attese del grande pubblico dell’età della globalizzazione esprimono il bisogno di un orientamento sicuro, fornito da risposte confortanti, non complesse, comprendiamo le ragioni del successo di un libro la cui parola d’ordine, più che “semplicità”, è “semplificazione”.

Infatti, Coelho, magari senza malizia, effettua un’astuta operazione populista: il “guru della New Age” ci offre un “prodotto” che cavalca un rassicurante messaggio parolaio e pseudo-popolare, proponendoci la vita come favola, lontana da ogni complicazione intellettualistica e dai drammi veri dell’esistenza. Ne risulta un romanzo dalla lettura facilissima e consolatoria, adatto a un/un’adolescente, ma capace, purtroppo, di ammaliare molti, troppi adulti.

Un pensiero riguardo “«L’ALCHIMISTA» DI PAULO COELHO E LA VERA ALCHIMIA: DALLE PAROLE ALL’ORO… (recensione di Vittorio Panicara).”

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