L’arte della mimetizzazione (di Raffaele De Rosa).

Recentemente ho avuto l’opportunità di seguire un convegno internazionale organizzato a distanza da un’università italiana. Chiuso nel mio piccolo ufficio casalingo elvetico ho ascoltato, con interesse, i contributi di studiosi europei che commentavano il loro materiale in tedesco, inglese e italiano. Con il passare dei minuti la mia attenzione si è spostata sulle voci e gli accenti dei partecipanti. Dal punto di vista delle competenze linguistiche formali sono stati impeccabili, dimostrandosi all’altezza della loro fama accademica.

Alla fine, comunque, mi è venuta in mente una domanda un po’ controcorrente: per essere credibili bisogna per forza imitare un parlante nativo? Questo è, infatti, quello che viene richiesto agli studenti di lingue straniere. Oltre a imparare la grammatica e il lessico di una nuova lingua, devono esserne in grado di riprodurre i suoni e l’intonazione nel modo più fedele possibile a quello dei nativi.

Parlare una lingua straniera senza il proprio accento originario è effettivamente il sogno di molti. In genere i più bravi a mimetizzarsi linguisticamente sono le persone cresciute con due o più varietà linguistiche fin dalla prima infanzia. Con l’avanzare dell’età certe capacità cognitive, mirate a modulare la propria pronuncia e intonazione su nuove lingue diverse dalla propria, tendono a indebolirsi per lasciare posto ad altri tipi di competenze.

Gran parte dei docenti ascoltati durante il convegno, a mio avviso, hanno parlato sostanzialmente senza accenti. Secondo me sono stati perfino artificiali, per quanto erano “perfetti”.

Interessante è stato, per esempio, il caso di alcune studiose italiane che, dopo aver fatto la propria introduzione nella nostra lingua, sono passate a usare un tedesco che, in realtà, si usa solo nella recitazione. Il Bühnendeutsch, cioè il “tedesco del palcoscenico”, è una specie di tedesco ideale, controllato e privo di inflessioni dialettali, raccomandato a lungo nell’insegnamento della cosiddetta “lingua di Goethe”. In italiano queste docenti erano molto più spontanee, mentre nell’uso tedesco era evidente il loro timore, inconscio, di non fare brutte figure di fronte agli altri. Meglio parlare come l’ispettore Derrick! Tranquille, concrete e affidabili come un certo tipo di automobili tedesche, ma senza emozioni.

Altri studiosi, invece, dopo un rigoroso autocontrollo iniziale, hanno iniziato a tradire le loro origini verso la fine delle loro presentazioni, quando erano un po’ più stanchi mentalmente. Mi ha anche impressionato una giovane e bravissima ricercatrice italiana che, nel suo intervento, passava con grande disinvoltura dall’accento britannico a quello irlandese (lei vive e lavora in Irlanda!), mentre le parti del suo materiale scritte in latino le pronunciava in modo spontaneo all’italiana con un leggero accento… veneto.

Non tutti sono in grado di mimetizzarsi in modo efficace dal punto di vista linguistico. Personalmente sono sempre più convinto che il cosiddetto “accento straniero” dia a una persona una credibilità maggiore, rispetto a chi, invece, tende a recitare, per libera scelta o obbligo, in un ruolo in cui non si sente veramente a proprio agio. Tutto dipende, comunque, dalla capacità degli altri (non necessariamente i parlanti nativi) di accettare le imperfezioni degli altri senza pregiudizi. Si tratta di un atteggiamento per niente ovvio… purtroppo.

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