Essere bilingui, vantaggi pratici e problemi teorici (di Vittorio Panicara).

Molti credono che sia difficile conoscere così bene due lingue da essere considerati veramente bilingui, cioè, detto in modo generico, in possesso di due lingue. Per indagare questo fenomeno linguistico prendiamo in esame le definizioni della Treccani, ma senza trovare risposte perfette:

La capacità che ha un individuo, o un gruppo etnico, di usare alternativamente e senza difficoltà due diverse lingue (o anche, per estens., due diverse varietà di una lingua, o la lingua letteraria e il dialetto)

https://www.treccani.it/vocabolario/bilinguismo/

Con bilinguismo si intende genericamente la presenza di più di una lingua presso un singolo o una comunità. Il bilinguismo in senso lato costituisce la condizione più diffusa a livello sia individuale sia di società: la vera eccezione sarebbe piuttosto il monolinguismo. Più in particolare, bilinguismo si riferisce sia al concetto più generale e ampio della competenza e dell’uso di due lingue, sia a quello più specifico di repertorio linguistico (meglio definito come bilinguismo sociale) formato da due lingue, che si oppone a diglossia. La diglossia è dunque una specifica forma di bilinguismo in cui le due lingue disponibili sono in un rapporto gerarchico e complementare.

https://www.treccani.it/enciclopedia/bilinguismo-e-diglossia_(Enciclopedia-dell%27Italiano)/

Quindi la persona che usa alternativamente e senza difficoltà (ammesso che ciò sia facilmente accertabile) due lingue dovrebbe dirsi bilingue, ma con riguardo sia alla competenza che al repertorio linguistico, dunque a livello sociale. Inoltre, questa condizione sarebbe “normale” e il monolinguismo sarebbe l’eccezione alla regola.

Tuttavia, rimane aperto un quesito: se il bilinguismo non è propriamente diglossia (le due lingue disponibili sono in un rapporto gerarchico e complementare), per cui le due lingue sarebbero paritarie, come è possibile assimilarle tutte e due a ciò che chiamiamo L1 (prima lingua) o lingua materna? Più semplicemente, possiamo dominare ugualmente due lingue, o una delle due rimane… un po’ “matrigna”?

Del resto, cosa si intenda con «lingua materna» non è affatto chiaro. Il senso comune potrebbe rispondere un po’ allo stesso modo di Dante (De Vulgari Eloquentia): è la lingua naturale e spontanea della nutrice, cioè della famiglia, ma oggi il paragone non regge, perché nel Trecento questa lingua era l’italiano (il volgare), mentre la lingua della scuola era il latino, parlato da pochi, per cui Dante, non senza coraggio, riteneva l’italiano superiore allo stesso latino. Invece di contrapporre la lingua parlata in casa a quella della scuola, bisognerebbe piuttosto esaminare la lingua che più si usa nella società, ma non senza distinguere tra i vari usi che ne facciamo secondo la situazione in cui ci troviamo (si parla in questi casi di variabilità funzionale, che non dipende direttamente dalla professione o dallo status sociale di chi parla). Vale a dire che io adopero la varietà di lingua più adatta dipendentemente dall’interlocutore, dal ruolo che ricopro e dai compiti sociali che svolgo. Se è l’uso quello che conta, ci si può chiedere (se è lecito) quale uso «valga» più degli altri. A questo riguardo, non è detto che la lingua delle università o dei testi letterari sia quella che debba far testo per stabilire qual è la norma, perché si può dimostrare che nella società, anche al livello formale, si parla in altro modo rispetto alle aule scolastiche e ai circoli letterari. In sintesi, si può dire piuttosto che l’uso formale della lingua in un certo tipo di situazioni (per esempio in ufficio, nelle redazioni dei giornali, ecc.) può essere il termine di paragone che cerchiamo, in aggiunta a ciò che ci suggerisce la forma un po’ astratta della cosiddetta lingua standard. Dunque, si può affermare che certi usi, in cui prevalgano correttezza e costanza di abitudini, e con riferimento a una vasta funzionalità nell’ambito sociale, possono essere considerati come una lingua da assumere come modello (“lingua materna”?).

Resterebbe da approfondire un altro punto: la padronanza della lingua, problema solo in apparenza meno complesso. In genere, si padroneggia una lingua quando si è capaci di riconoscerla, in qualsiasi sua varietà (non esclusi i dialetti), partendo anche da una semplice frase. Ma questo non pare sufficiente, giacché occorre sapersi esprimere anche correttamente e in ogni situazione, e i due obiettivi insieme non sono facili da raggiungere. La persona bilingue dovrebbe avere competenze adeguate, di ricezione e di produzione della lingua nella comunicazione pratica (lettere, conversazione formale e così via). Non facile, evidentemente, e con un breve corollario finale: il bilinguismo come tale mette in discussione l’opposizione teorica fra L1 e L2…

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