Il treno, nel frattempo, è uscito dal lungo tunnel. Il finestrino è ormai asciutto, tutte le goccioline d’acqua della forte pioggia si sono dissolte nel tunnel. Questa lunga giornata estiva, passata nella Svizzera meridionale, prosegue nell’imbrunire in una valle con alte montagne incombenti su un lago che sembra un fiordo nordico. Fuori scorrono velocemente le luci dei centri abitati che si stagliano nel buio dei boschi e dei prati. La temperatura della carrozza è diventata più accettabile, forse il controllore ha alzato la temperatura dell’aria condizionata oppure mi sono adattato io quel freddo un po’ innaturale.
Il gruppo di pensionati si è calmato definitivamente. Qualcuno dorme, altri stanno in silenzio digitando sui loro telefonini, in attesa di ritornare definitivamente alla loro routine settimanale fatta di concerti da seguire in qualche chiesa o teatro, prove in qualche coro, corsi di lingua o di ginnastica, visite dei nipoti o dei figli preventivamente concordate con almeno tre mesi di anticipo, escursioni nei boschi a piedi o in bicicletta, giardini da curare, erba da tagliare, fiori da comprare e tanto altro ancora. Sono persone che hanno lavorato per tutta la vita e adesso si godono il tempo libero come possono, riempiendo le loro agende di attività di ogni tipo. Secondo me il benessere di un Paese si vede dalla qualità di vita dei suoi pensionati e in Svizzera non se la passano affatto male. Forse sono anche felici… non lo so.
«Torneresti in Italia?», chiede Valentina. Si tratta di una domanda che mi hanno fatto tantissime persone in questi anni. Credo che si tratti della classica domanda che si fanno continuamente gli emigranti per giustificare certe loro scelte. Rimanere? Ritornare? Dove? Perché? E poi inizia tutta una serie di valutazioni e paragoni tra qua e là. La guardo, ma non so cosa rispondere.
«Non mi dire che non ti sei mai posto questa domanda?», insiste Valentina.
«Per la verità ho smesso di pormela da diversi anni».
«Perché?».
«Per tanti motivi… ormai ho scelto…».
«Rimani qui, per sempre, giusto?», lo sguardo di Valentina è difficile da interpretare. Forse rimarrà delusa dalla mia risposta… e infatti mi limito ad annuire in silenzio.
«Io… ancora non lo so. Diciamo che abito in un luogo dove si parla l’italiano e, per certi versi, è molto simile al mio luogo di origine… almeno nel tipo di mentalità», aggiunge Valentina.
«Non lo dire troppo ad alta voce! Loro ci tengono molto a differenziarsi dagli italiani che abitano a pochi metri oltre il confine», dico con un sorriso ironico, ma non voglio perdermi in inutili polemiche sull’italianità elvetica e quella italica. In fin dei conti parlare la stessa lingua non significa possedere gli stessi valori o avere lo stesso passaporto.
«Proprio per questo motivo sono simili. Gli stessi discorsi li stento dire da anni da entrambi i lati del confine… nessuno vuole sentirsi italiano, ma culturalmente lo sono… lo siamo. Abbiamo in comune lo stesso lessico e… usiamo perfino le stesse parolacce», Valentina sorride e mi fa l’occhiolino. Probabilmente fa riferimento a una lezione che ho tenuto a Laguna sul turpiloquio quando ero il suo professore.
«Ricordati, comunque, che mona da noi è una parolaccia multiuso, mentre dove abiti tu è un cognome abbastanza diffuso. Dove abito io, invece, può essere il diminutivo di Monika. Pensa… tempo fa c’era una nota trasmissione televisiva chiamata Mona mittendrin… mona al centro di tutto… proprio come da noi», il mio tono è beffardo e aspetto una reazione da parte di Valentina che infatti scoppia a ridere.
«Non ti vergogni usare queste parole con una donna appena conosciuta?», il tono di Valentina è fintamente di rimprovero.
«Un po’… ma siamo maggiorenni e a me piace giocare con le lingue e poi mi pare che a Laguna, quando tu eri una mia studentessa, io sia riuscito a fare la mia lezione sul turpiloquio senza scandalizzare nessuno…», questa volta il mio tono è fintamente ingenuo, ma Valentina non raccoglie la mia affermazione. Sembra, invece, che stia pensando a qualcosa. Io la guardo, capisco che c’è qualcosa che l’ha colpita in quello che ho appena detto. Non credo che abbia a che fare con la parola mona.
«Tu prima hai usato il pronome noi», mi fa notare Valentina, puntando l’indice verso di me, come se avesse scoperto un segreto inconfessabile.
«È solo un pronome… tutto qui…», minimizzo io.
«Eh… no… non mi freghi. Tu eri convinto di quello che dicevi. Con quel noi hai espresso inconsciamente un’appartenenza… alla nostra regione. Vedi che alla fine ti sei scoperto? Non si può rimanere senza radici, anche se si fa di tutto per negarle», questa volta il tono di Valentina è vagamente accusatorio.
Guardo questa bellissima donna e mi chiedo il motivo per cui continua ad insistere su certe questioni identitarie. Ho capito che lei si sente, nonostante tutto, legata alle sue origini. Ci sono milioni di emigrati che hanno questo sentimento. È giusto che sia così, ma io non ho questa esigenza. Gliel’ho anche detto. A meno che… a meno che, anche lei non abbia iniziato a fare i conti con le cose che ha lasciato, come per esempio la villetta a schiera in mezzo alla campagna piena di capannoni dove abitava con i genitori, il bar in piazza dove andava a comprare il gelato con la cugina, la piazza nel centro storico dove andava a bere lo spritz con la compagnia di amici, la discoteca al mare che frequentava da ragazza con il moroso, la pasticceria dove si incontrava con l’amica del cuore a parlare dei tosi, il grande centro commerciale pieni di negozi dove andava a fare shopping con la madre… e a paragonarle con quelle che ha trovato, come per esempio un lavoro ben retribuito in un Paese ottimamente organizzato come la Svizzera.
In verità io non so che cosa abbia lasciato Valentina nel suo paese di origine. So solo che quasi tutti gli emigranti, indipendentemente dal loro grado di istruzione e dal lavoro svolto all’estero, alla fine, fanno un bilancio della propria vita. E Valentina vuole da me delle risposte. Prima o poi bisogna fare i conti con la propria nostalgia.
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