LA INTERMITTENZE DEL SONNO IN ALCUNE PAGINE DI MARCEL PROUST, PARTE PRIMA (a cura di Vittorio Panicara).

Il lettore della Recherche sa bene quanti fiori preziosi e quanti squarci di luce abbaglianti si possano cogliere nel mare magnum dello sconfinato spazio testuale proustiano, tra riflessioni prolungate, descrizioni accurate, scene al rallentatore, con dialoghi che a volte possono parere apparentemente vuoti o stucchevoli al lettore superficiale. In effetti, si tratta di una ricorrente anisocronia, in cui il tempo della storia è inferiore al tempo del discorso, e le digressioni, in una narrazione già molto lenta, “fermano” il racconto per commentare un fatto, un comportamento, lo stato d’animo di un personaggio. Nell’opera di Proust il narratore introduce temi e sviluppa riflessioni che a poco a poco rivelano tutta la loro universalità. Il fascino di queste pagine, che non deve naturalmente coprire l’altissimo valore estetico dell’opera nel suo insieme, e la sorpresa che suscitano con la loro originalità di pensiero, costituiscono una novità che supera ogni attesa, ogni conformismo vigente, ogni convenzione.

Ma queste parti, di per sé autonome, non vanno isolate dal loro contesto narrativo, come spesso accade con la Recherche, quando – soprattutto in internet – si fa ricorso a frettolose citazioni e ad aforismi “strappati” dal testo e colti come fossero fiori sgargianti rinvenuti per caso nell’aridità di un deserto. No, le riflessioni dell’io narrante proustiano acquistano senso e si giustificano solo all’interno del complesso tessuto narrativo della Recherche; rappresentano il “culmine” a cui giunge in forma esplicita il sapere autoriale e gettano luce sulla narrazione, aggiungendo significati più generali e coinvolgenti; ma non «esisterebbero», non potrebbero germogliare, senza l’humus del loro intorno testuale e linguistico.

In questo articolo, che non intende «recensire» ma solo spiegare un brano di poche pagine, noteremo l’universalità, l’attualità e la genialità del suo pensiero, ma non potremo fare a meno di indicare, anche se in breve, le linee narrative in cui si innesta la sua analisi. E occorre aggiungere che l’opera proustiana acquista significati man mano che si procede con la lettura; l’autore non voleva che il suo lettore ritenesse definitivo il senso generale della narrazione prima di arrivare a «Il tempo ritrovato», settimo e ultimo volume della Recherche. Noi rispetteremo questo suo volere, anche per non rischiare di travisare il suo messaggio complessivo, e riconosceremo il carattere della provvisorietà alle nostre conclusioni. Non mancheranno, del resto, frequenti richiami testuali ad altre parti dell’opera.

Il testo (soprattutto un riassunto).

Siamo nel terzo dei sette volumi di «Alla ricerca del tempo perduto»: «Guermantes» (1920), all’inizio della prima parte. Il protagonista, innamorato della duchessa di Guermantes, accortosi del fastidio che le sue attenzioni le stanno procurando, lascia la Parigi di fine secolo e va dal nipote di lei Saint Loup a Doncières. Vuole sfruttare l’amicizia del giovane per introdursi successivamente nel tanto agognato salotto dei Guermantes, che lui si figura in un alone di favola e di incanto. L’amico vive in caserma e non può liberarsi se non occasionalmente; consiglia al protagonista un albergo lì vicino, fiabesco e rassicurante, dove il Nostro va a dormire. Il suo risveglio è l’occasione di una lunga analisi sul sonno e i sogni, ed è questo il brano oggetto del nostro esame.

È opportuno aggiungere che nel proseguimento della storia egli, tornato a Parigi, dopo lunghe e varie vicende, riuscirà effettivamente a frequentare la duchessa e il suo ambiente, ma questo sogno, una volta avveratosi, perderà tutto il suo fascino di fronte a una realtà prosaica quanto deludente. Il protagonista è ormai disamorato e ne è pienamente cosciente..

La riflessione del narratore prende spunto dal sonno inquieto del protagonista durante la prima notte a Doncières. Dormire in un ambiente diverso, in un altro letto, con altri oggetti intorno, non gli permette di abbandonarsi al consueto tran tran delle sue fantasticherie. È questo tipo di attività psichica che stimola e guida il sonno, e stavolta il protagonista non riesce a suscitare quei ricordi e quelle immagini solite che in genere gli permettono di assopirsi. A un certo punto si addormenta, ma questo “nuovo” sonno è del tipo di quello che a volte nasce per caso, involontariamente, di colpo, come fosse un dono del cielo. Nel momento che precede il risveglio del Nostro, questo sonno così particolare soffoca persino la musica della fanfara di un reggimento, e ciò accade due o tre volte.  Da qui un’intuizione che in seguito verrà approfondita: allo stesso modo è altrettanto difficile descrivere la vita degli uomini se non immergendola nel sonno da cui spunta ed è circondata, notte dopo notte, come una penisola dal mare. Il protagonista, in altre parole, si è reso conto a poco a poco del suono della fanfara, districandosi nelle nebbie del risveglio e ripiombando spesso nel silenzio, analogamente a quanto accade a chi voglia narrare la vita degli uomini, difficile da riconoscere e individuare, proprio perché riguarda solamente la veglia e non il sonno. La narrazione si sofferma su questo alternarsi di stati di veglia e di sonno, in cui ciò a cui assistiamo potrebbe in ogni momento non essere “reale”.

E l’io narrante approfondisce la sua analisi del sonno. Dormendo ci capita di pensare a qualcosa che avremmo voluto fare da svegli e che non abbiamo fatto, ma ciò, rispetto alla vita diurna, avviene in modo modificato, alterato, in una via diversa. Consapevoli di questa differenza, gli uomini, quando vogliono favorire il sonno, tentano di scacciare da se stessi il mondo diurno. L’attimo in cui la nostra mente si rende conto di pensare qualcosa di illogico, o quando ciò che immaginiamo contraddice l’evidenza del presente, allora accoglieremo felicemente questa breve assenza come segno che stiamo per lasciare la percezione del reale. Ci stiamo per addormentare e il sonno sarà più o meno “buono” quanto più abbandoneremo la realtà:

un gran passo è già fatto quando si voltano le spalle al reale, quando si raggiungono i primi antri dove le ”autosuggestioni”, preparano, come fattucchiere, l’infernale calderone delle malattie immaginarie o della recrudescenza delle malattie nervose, e spiano l’ora in cui le crisi riaccumulate durante il sonno incosciente si scateneranno con violenza sufficiente a farlo cessare.

Il narratore, a suo agio con i campi metaforici, stabilisce poi una similitudine con i sonni artificiali. Questi ultimi crescono come fiori ignoti sempre diversi in un grande giardino; sono quelli provocati dalla canapa indiana, dall’etere, o dall’oppio: e così in qualche creatura estasiata e stupita, nell’ignoto predestinato, si esala l’aroma dei sogni particolari. L’abbandono della realtà in questo caso non potrebbe essere più completo (un sonno perfetto originato, sotto metafora, da finestre spalancate in fondo al giardino), ma non può impedire il risveglio, come se dentro di noi ci fosse una sveglia interiore regolata con estrema esattezza. La veglia tornerà insieme con i pensieri che hanno preceduto il sonno; i ricordi dei sogni svaniranno, avvolti da fitte tenebre. Le tracce dei sogni, tuttavia, potrebbero riemergere, per esempio nel bel mezzo del pomeriggio, ma saranno irriconoscibili:

nell’impossibilità di riconoscerli, siamo costretti a restituirli in gran fretta alla terra, come cadaveri troppo rapidamente decomposti o come oggetti così gravemente danneggiati, o quasi in polvere, che nemmeno il più abile dei restauratori potrebbe ricostruirne una qualche forma o ricavarne alcunché.

I sonni profondi, del resto, devono di necessità essere scacciati affinché possa aver luogo un vero e proprio risveglio, così come teniamo al di fuori di noi, racchiusi in una gabbietta per sorci, i nostri incubi notturni (che non sono peggiori dell’insonnia, nota la voce narrante, come pretenderebbero alcuni medici). E per lottare con il sonno profondo (in una cava vicino all’inferriata) siamo costretti, come il giovane Sigfrido, a menare gran colpi d’asciaLa piattaforma girevole del risveglio ci condurrà poi man mano all’immagine che corrisponde al luogo che ci ospita. E a volte, dopo un sonno molto pesante, ci sentiamo come dei pupazzi di piombo e si ha l’impressione di non essere più nessuno. E a questo punto il narratore pone degli interrogativi.

Come mai, allora, cercando il proprio pensiero, la propria personalità come si cerca un oggetto smarrito, si finisce col ritrovare il proprio “io” e non un altro qualsiasi? Perché, quando ci si rimette a pensare, non è una personalità diversa dalla precedente a incarnarsi in noi? Non si capisce da cosa sia dettata la scelta, ci sfugge la ragione per cui, fra i milioni di esseri umani che potremmo essere, la nostra mano vada a pescare precisamente quello che eravamo il giorno prima.

Se accade che il sonno è stato totale, se è stato una vera interruzione, perché torniamo in noi stessi e non in un altro io? Proust paragona questo sonno completo a una morte vera e propria, da cui veniamo miracolosamente rianimati nell’atto di svegliarci.

La resurrezione del risveglio – dopo quel benefico accesso di alienazione mentale che è il sonno – deve assomigliare in fondo a ciò che accade quando si recupera un uomo, un verso, un motivo dimenticati. E, forse, alla resurrezione dell’anima dopo la morte si può pensare come a un fenomeno di memoria.

Con questa presa di posizione paradossale, alquanto inaspettata, termina la disanima del circuito sonno-risveglio-veglia, lasciando al lettore una fitta selva di domande senza risposta. Si coglie subito la portata filosofica di queste pagine (quasi sei nell’edizione Mondadori, con la traduzione di Raboni), che toccano la sostanza profonda dell’intera saga e rimandano a molti altri luoghi della Recherche. Si impone dunque qualche commento, che, come detto, difficilmente potrà essere esaustivo.

In ogni caso, è consigliabile fare riferimento alle preziose note dell’edizione dei Meridiani e a un altro brano, stavolta breve (circa due facciate), di nuovo dedicato al sonno, che compare poco dopo nel libro (in realtà ben settanta pagine dopo).  

A quanto pare, Proust analizza il sonno tenendo presenti gli scritti di impostazione medico-scientifica di alcuni autori coevi, contrapponendosi almeno in parte alle tesi di Bergson di «Materia e memoria» (su questo confronto, essenziale per capire tutta la Recherche, si veda più avanti, nella seconda metà  del commento). Inoltre, la discesa graduale nelle profondità dell’inconscio si ispira al canto sesto dell’Eneide, al Macbeth (le fattucchiere) e al «Sigfrido», quando nel primo atto l’eroe rompe sull’incudine l’ascia fabbricatagli da Mime. Gli incubi del Nostro rimandano, quando nomina le gabbie dei topolini, a una poco simpatica caccia ai topi che avveniva nei bordelli per omosessuali frequentati dall’autore (le attestazioni sono molte) e alla simbologia infernale che questi roditori suscitavano nel suo animo.

Veniamo ora al secondo brano sul sonno di questa prima parte del «Guermantes I».

Tornato a Parigi, il protagonista non riceve nessun invito da Madame de Guermantes (Saint Loup non lo ha aiutato, come aveva promesso) e riprende le sue passeggiate mattutine. Un giorno, di pomeriggio, stanco, torna a casa e riflette di nuovo sui labili confini tra veglia e sonno, tra immaginazione e sogno. La difficoltà di addormentarsi dipende dalla labilità del sonno, che può fargli credere di non dormire, o che può scomparire senza che lui si renda conto di non dormire più. Gli pare di vedere ombre di visitatori, appena distinguibili, simili ai giochi di luce nella penombra già visti una volta tra i canali di Venezia. In un sogno si raffigura una scena marina già una volta immaginata da sveglio, con una città medievale divisa in due dall’acqua: i palazzi e le chiese che vede gli danno l’impressione che avvicinarsi sarebbe come rimontare il corso del tempo. Questo sogno, che sembra farlo approdare all’impossibile, dovrebbe averlo fatto già più volte. È davvero un sogno ricorrente, ma il Nostro stavolta si è ingannato, sapendo che nei sogni tutto è sempre familiare e tende a moltiplicarsi. Ha l’impressione, come detto, che siano entrati nella stanza degli amici, vorrebbe parlare con loro, andar loro incontro, ma sa che dormendo non si può parlare, che si è svestiti, per cui prova vergogna.

Così, gli occhi ciechi, le labbra sigillate, le gambe legate, il corpo nudo, la figura del sonno proiettata dal mio stesso sonno faceva pensare alle grandi figure allegoriche in cui Giotto ha rappresentato l’Invidia con un serpente in bocca, quelle figure che m’aveva regalate Swann.

Queste righe confermano lo stretto legame che esiste fra sonno e immaginazione, quando il confine con la veglia nella coscienza è tenue, impalpabile, e sono notevoli l’accenno al tempo e, nella citazione, all’arte (con la Cappella degli Scrovegni a Padova, realmente visitata da Proust nell’estate del 1900).

Ma rimane da comprendere appieno il senso del finale del brano che è stato riassunto in precedenza, quando la voce narrante indica nel risveglio una sorta di resurrezione da quella benefica alienazione mentale che è il sonno. E quando aggiunge che

deve assomigliare in fondo a ciò che accade quando si recupera un uomo, un verso, un motivo dimenticati. E, forse, alla resurrezione dell’anima dopo la morte si può pensare come a un fenomeno di memoria.

Qui soprattutto si avverte l’influenza di Bergson, che vedeva nella memoria la prova che esiste una realtà superiore all’interno dell’uomo. Ma le cose non stanno esattamente così, c’è di più…

La seconda e la terza parte dell’articolo riporteranno il commento al testo.

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