«Diceria dell’untore» di Gesualdo Bufalino fu nel 1981 (Sellerio, Palermo) lo spettacolare esordio narrativo di un autore importante quanto in seguito sottovalutato. Un testo così difficilmente eguagliabile quanto a profondità e complessità meriterebbe un ampio saggio, ma l’intento di questo articolo è molto più modesto e passabilmente votato all’insuccesso: abbozzare alcuni tratti della poetica e forse del pensiero dell’autore tramite l’esame di un solo capitolo, il quinto, per di più parzialmente avulso dal contesto del racconto, quasi una digressione.
In un sanatorio della Conca d’Oro, nel 1946, alcuni reduci di guerra attendono la morte, dialogando fra loro e con una speranza di guarire dalla tisi da considerare chimerica. Il protagonista, contrariamente alla maggior parte dei pazienti, è guarito e molti anni dopo ci racconta il ricordo della sua vicenda, che sa di appressamento alla morte, di vita vissuta al limitare della fine di tutto. Segnato dalla sua storia, il narratore affronta, tra i tanti altri, i grandi temi della malattia, del rapporto vita-morte, della fede in Dio, della memoria e dell’amore (la vicenda di Marta, che inizia nel capitolo VI, è centrale). «Lunghi duelli di gesti e di parole» (cito dalla presentazione di copertina: parole «febbricitanti, tenere, barocche») caratterizzano la povera vita dei ricoverati, narrata nella successione di fatti e personaggi. Tra questi incontriamo, all’inizio del testo, il Gran Magro, soprannome dato al primario della clinica, spesso in duello dialettico con il protagonista, e altri «compagni di prigionia», pronti a imparare con passione la morte degli altri «come se fosse la propria». Così anche noi lettori “impariamo” la tenera fine del bambino Adelmo, o del suicida Sebastiano, o del sottotenente Giovanni, il primo a morire. In questo «albo di croci», dopo aver raccontato lo svolgimento della vita alla Rocca, il narratore ci parla di padre Vittorio, e siamo finalmente al V capitolo.
È un incontro imprevisto, ma darà luogo a uno scambio così intenso di opinioni sulla vita e sul valore della religione, da lasciare un segno indelebile nell’animo del protagonista, che scopre, nel momento in cui padre Vittorio muore,
che fin allora il mio cristianesimo non era stato che una gravidanza supposta, un’isteria di tre mesi.
Una sera la conversazione tra i due si trasforma infatti in un duello tra il frate friulano, difensore della Rivelazione, e il protagonista, più che mai scettico in materia di fede. E se il frate riesce a infondere speranza nell’interlocutore, al tempo stesso subisce i dubbi e le incertezze dell’altro, come dimostrerà, a un certo punto, lui morto, il ritrovamento di uno «zibaldone a matita». Il documento autografo è stato scritto di nascosto e si concentra su Dio, sulla vita e la morte; il frate vi ha riversato uno scetticismo disperato quanto inatteso, che ci offre un coacervo impressionante di dilemmi e problemi irrisolti. Il capitolo V, nella sua seconda metà, riporta queste riflessioni, scritte spesso in forma aforistica. Ne scelgo alcune, le più significative. senza rispettare l’ordine testuale, perché mostrano sinteticamente una problematica che un realtà è sottesa a tutto il libro.
LA VITA
Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uomo innocente.
[…] sono prigioniero per sempre della prudenza con cui studio troppo a lungo i minuti senza osare mai viverli all’improvviso.
Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la pena di vivere, per non essere castigati senza un perché.
Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, rubata per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è uno sbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è morire.
LA MORTE
La morte: un esilio? Un rimpatrio?
Come s’affonda in un legno un chiodo, a piccoli colpi, la morte…
Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono. Sarà così la morte? Rincorrere tutta la notte un se stesso che fugge, cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome dimenticato?
In sogno ho annusato la morte. Che graveolenza di bassa cucina. Che bisogno, dopo, di lavarsi ininterrottamente le mani.
La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente.
DIO
Solo l’infelicità è degli uomini, la disperazione è di Dio.
Dio, gigantesco eufemismo.
Con la mano sull’interruzione, di notte, nella mia stanza, gioco al Fiat lux, gioco a essere Dio: spengo e riaccendo, rispengo e riaccendo. Infine la lampadina quietamente si fulmina.
E se fossimo solo il Suo peccato originale, l’infrazione, la mela che non doveva mangiare?
[…] Poveri, selvaggina di Dio.
Fatti vedere, Tu che mi spii.
LA RICERCA DEL BENE
Dalla grazia alla disgrazia, a piedi nudi, come in sogno.
D’improvviso, stamattina, un frullo d’ali d’allodola in cuore. Simile ad un presagio di non sperato riscatto.
Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la pena di vivere, per non essere castigati senza un perché.
Un pensiero sospetto sulla Passione: è venuto per salvarsi, prima ancora che per salvarci (parlarne ai miei superiori).
L’incertezza angosciosa di vivere per morire, nell’infelicità, senza la presenza certa e rassicurante di Dio non è ciò che ci aspetteremmo in un religioso! L’influenza reciproca tra i due interlocutori è stata forte, se il protagonista ha potuto attingere alla speranza di padre Vittorio e se costui è andato incontro alla morte riconoscendosi impotente e fragile. Confermerà questo suo atteggiamento in un intenso dialogo del capitolo VII, in cui dichiara la sua infelicità e il dubbio che lo ha assalito:
E sempre più spesso dubito e mi spavento e mi sento un prete per finta. Seppure non grido contro di Lui. La sera scende ma io non so trovarlo al mio fianco…
La narrazione, in parte autobiografica, ci mette di fronte a un dilemma interpretativo: quale dei due personaggi impersona l’istanza autoriale? Dove si colloca il messaggio più profondo di «Diceria dell’untore»? A metà strada tra la speranza e la disperazione, verrebbe da dire, e non saremmo lontani dalla verità. Il romanzo si snoda nei meandri di Eros e (soprattutto) Thanatos, il gran vincitore, e ci mette di fronte al sapere dell’autore (e al suo non-sapere), uomo che ha già esperito l’estinzione del sé, pur essendo stato condannato a vivere. In questa atmosfera, cupa e gravida di vita insieme, il lettore partecipe segue però come guida un filo di Arianna: gli aforismi di padre Vittorio, con le sue domande aperte e insoddisfatte. Cercando nel testo risposte che non verranno.
Ma Bufalino ha in serbo per il lettore un’ultima risorsa, la più preziosa: quella della parola, una lingua sovrabbondante, un «esubero di parole» voluto, ma mai fine a se stesso. I significati si affollano nella densità delle parole e delle frasi con un lascito di poesia e di saggezza rapportabile all’esperienza di apprendimento a morire del protagonista-narratore. L’arte ci consola del mistero del vivere. «La scrittura ci serve come medicina, come luogo di confessione, come possibilità di dialogo con noi stessi», allo scopo di esorcizzare la morte (Intervista a Bufalino: https://www.youtube.com/watch?v=54gN9UN845k).
Poveri selvaggina di Dio: significato chiaro e breve per cortesia.
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Già, riflessione sintetica e profonda.
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