La comunicazione, questa pericolosa sconosciuta / RIFLESSIONE

Nell’era della comunicazione dovremmo sapere tutti cosa, come e con quali effetti comunichiamo. Ma non è così. Basta una breve analisi, sulla scorta di tre citazioni, per rendersene conto.

Intanto, comunicare non significa di per sé fare cultura:

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J. W. Von Goethe, «Massime»

Comunicare l’un l’altro, scambiarsi informazioni è natura, tener conto delle informazioni che ci vengono date è cultura.

Un semplice messaggio, per esempio un’insegna in strada, serve a fornire un’informazione, e ciò per Goethe è qualcosa di “naturale”, spontaneo e scontato; ma rielaborare, approfondire e cogliere le implicazioni di questa informazione (“tener conto”: per esempio, l’insegna nasconde un inganno, perché offre merci sospette ecc.) è il frutto di un’interpretazione, è “cultura”. E se il messaggio è espressivo, l’interpretazione sarà più complessa, perché dovrebbe fondersi con il coinvolgimento emotivo voluto dall’autore; si pensi al testo di una canzone, o a una poesia. Dunque, in questi casi non occorre solo informare, ma cercare l’empatia del lettore per lasciargli un’impressione, per fargli vivere un’emozione.

Ma se pensiamo alla pubblicità, o alla politica, o forse allo sport, tutto ciò non vale più e troviamo una mostruosa eccezione, lo slogan:

C’è un solo caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.

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Pier Paolo Pasolini, «Analisi linguistica di uno slogan» (1973), da «Scritti corsari».

Riassumendo, una comunicazione breve può darci mera informazione, ma può trarre in inganno con i suoi stereotipi la nostra sensibilità e la nostra intelligenza nel caso dello slogan. Viene da pensare ai social e ai caratteri contati che rendono difficile ragionare, dimostrare, argomentare, tutte attività basilari per avanzare nella civiltà, vivere insieme e maturare come persone.

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Norberto Bobbio, dall’introduzione al “Trattato dell’argomentazione” di Perelman e Olbrechts-Tyteca

La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati e la non-verità degli scettici c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione mercè la tecnica di addurre ragioni pro o contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza.

Discutere in modo dialettico, argomentare, sono stati sempre la base della convivenza pacifica grazie al loro rifiuto di una verità assoluta, questo ci insegnano Norberto Bobbio e le teorie dell’argomentazione, magari con qualche tecnicismo. Solo chi ha delle “verità” parziali, relative, entra in un contatto fruttuoso con gli altri ed evita il dogmatismo e la violenza che ad esso è intrinseca.

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Riassumendo, un messaggio troppo breve, tipo slogan, con una connotazione falsante, senza una base ragionativa, serve solo a ingannare il lettore, condizionandone in modo sleale il gusto, il pensiero e la volontà stessa. Non è questo il modo di comunicare di molti politici, dei media di oggi e dei social in primo luogo? E quanta frustrazione, rabbia e violenza provocano?

Le conseguenze di tutto ciò non sono trascurabili. Pensiamo per un momento all’Italia, ai comunicati dei politici e ai loro interventi televisivi: quasi solo slogan in stile pubblicitario, dichiarazioni apodittiche che non ammettono discussioni, informazioni non verificabili spacciate per vere, speculando sulla scarsa vena interpretativa dei destinatari. Non si può dire che la libertà di manifestare il pensiero in Italia sia una garanzia di democrazia…

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