LE ORIGINI DI UNA GUERRA INFINITA (di Vittorio Panicara)

L’attuale conflitto in Palestina ha origini lontane e non può dirsi certo una novità storica. Arabi ed ebrei si fronteggiano fin da quando alcune decisioni politiche successive alla Grande Guerra e al disfacimento dell’impero ottomano permisero agli ebrei un “ritorno” nella terra dei padri gravido di conseguenze. L’urto con la comunità autoctona araba, infatti, fu cosa immediata e in un certo senso non ha conosciuto pause fino ai nostri giorni (anzi, si è aggravata). Queste origini di una “guerra infinita” sono da non dimenticare, ammesso che il genere umano sia capace di imparare dai propri errori.

Palestina 1917-1920 e oltre.
Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni (Arthur Balfour, Ministro degli Esteri del Regno Unito, lettera a Lord Rotschild, rappresentante del movimento sionista, 2 novembre 1917).
Questo breve testo è la famosa Dichiarazione Balfour, che aprì le porte alla migrazione legale degli ebrei in Palestina. La spinta del sionismo di Theodore Herzl – suo lo slogan un popolo senza una terra va a una terra senza un popolo – aveva portato già da tempo a contatti ravvicinati con il governo britannico, presente in Palestina alla fine del primo conflitto mondiale. Alcuni anni dopo la Gran Bretagna ottenne il mandato per la Palestina per conto della Società delle Nazioni e la sua politica non ostacolò la costituzione di quegli insediamenti che molto più tardi avrebbero portato alla nascita dello Stato di Israele. A questo proposito va notata la vaghezza della dichiarazione, che non parla espressamente di uno Stato ma di una dimora o focolaio nazionale per il popolo ebraico in Palestina. Questa presenza ebraica avrebbe dovuto in ogni caso garantire i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, dunque delle comunità arabe palestinesi. La dichiarazione Balfour successivamente fu inserita all’interno del trattato di Sèvres (1920), che definiva la sorte delle ex colonie turche (decisioni confermate dalla Convenzione di Losanna del 1923). Il punto è che fin dagli anni Venti, con il mandato britannico, iniziò il massiccio arrivo dei coloni ebrei in Palestina. In base ai principi del sionismo gli ebrei avevano il diritto alla loro autodeterminazione in “Terra d’Israele”, e i primi arrivi c’erano già stati alla fine del XIX secolo. Ma l’afflusso migratorio ebreo in Palestina divenne sempre più consistente nel periodo fra le due guerre mondiali, nonostante la politica altalenante della Gran Bretagna, interessata a mantenere buone relazioni anche con i paesi arabi. La composizione sociale dei due gruppi etnici era molto diversa: gli ebrei diedero vita a colonie di tipo collettivistico, i kibbutz, mentre l’agricoltura degli arabi rimaneva a un livello arretrato. Le due comunità entrarono ben presto in conflitto etnico-religioso e negli anni Venti ci furono moti antiebraici, massacri e rappresaglie. La svolta per l’immigrazione si verificò dopo l’avvento al potere di Hitler in Germania nel ’33, quando le persecuzioni naziste spinsero una moltitudine di ebrei a partire per la Palestina: a questo punto l’afflusso dei coloni ebrei divenne enorme e inarrestabile, soprattutto dopo la scoperta dei campi di concentramento.

La nascita dello Stato di Israele
Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite si occupò del problema palestinese alla fine della seconda guerra mondiale. Propose dapprima che si permettesse una nuova migrazione di ebrei nel territorio palestinese e contemporaneamente che continuasse il mandato britannico (che in effetti durò fino al 1948), ma l’idea incontrò il rifiuto dei paesi arabi. L’attività diplomatica dal 1945 al ’47 fu frenetica, ma non diede risultati pratici, mentre cresceva la protesta degli ebrei (si arrivò perfino ad atti terroristici). A un certo punto si arrivò a una soluzione del problema che voleva essere equilibrata: Palestina divisa in due Stati, uno ebraico, l’altro arabo; Gerusalemme zona internazionale. L’assemblea delle Nazioni Unite accettò il piano, che però venne rifiutato dai paesi arabi. Iniziò così la prima guerra arabo-israeliana, che in pochi mesi volse in favore di Israele, che si era ben preparato a questa eventualità. Il risultato fu che il neonato stato d’Israele riuscì a scacciare gli arabi dal territorio della Palestina che l’ONU aveva loro assegnato, ampliando molto il proprio territorio già riconosciuto dalle Nazioni Unite. La popolazione araba di quei territori dovette fuggire e Israele ne favorì l’esodo (tra 500mila e un milione di persone), senza accettare poi di riprenderli. Dal maggio 1948 al 1950 Israele passò da 650mila abitanti a un milione e 200mila. La vittoria del sionismo era completa e i motivi del malcontento arabo sono evidenti nei documenti dell’epoca.
Le parole d’ordine del sionismo erano state confermate dal premier Ben Gurion al Consiglio Nazionale ebraico al momento di annunciare la costituzione dello Stato di Israele (14 maggio 1948): La terra di Israele fu la culla del popolo ebraico; qui fu formata la sua entità spirituale, religiosa e nazionale. Gli ebrei immigrati, inoltre, hanno bonificato il deserto […] costruito città e villaggi, stabilito una comunità vigorosa e in continua espansione. Infine, gli ebrei scampati allo sterminio nazista avevano diritto a una vita di dignità, libertà e lavoro nella loro terra.
Le ragioni degli arabi vennero invece spiegate dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP, 1969): gli arabi vivevano in Palestina da almeno 1300 anni; nel 1917 gli arabi in Palestina erano il 90% ed erano proprietari di più del 97% delle terre; il Regno Unito aveva favorito gli insediamenti ebraici e quasi tutte le terre assegnate ai sionisti non erano state indennizzate agli arabi; l’ONU, al momento di votare per il nuovo stato ebraico, aveva destinato a Israele solo il 54% del territorio palestinese, mentre Israele ne occupò più dell’80 %; l’ingresso di due milioni di ebrei, in aggiunta a quelli già preesistenti, aveva scacciato gli arabi, costringendoli a vivere nei territori vicini, in campi per profughi gestiti dalle Nazioni Unite.

Guerre senza fine (cenni)
Gli eventi successivi confermarono la forza militare di Israele e l’estrema difficoltà di risolvere con la diplomazia il conflitto. Nel 1967 la “guerra dei sei giorni” coinvolse anche Siria e Giordania e si concluse con la vittoria di Israele, che occupò la Cisgiordania. Nel ’73 la cosiddetta “guerra del kippur”, iniziata con un attacco a sorpresa, si concluse grazie all’intervento delle grandi potenze; nel ’78-79 fallirono i tentativi di pace di Camp David. Nel 1987 nuovi insediamenti ebraici nell’ovest della Giordania, a Gaza e a Gerusalemme-est provocarono la protesta dell’intifada, conclusa con gli accordi di Oslo (mai veramente attuati). Dal 2000 al 2009 sono falliti tutti i tentativi di istituire uno Stato arabo palestinese, provocando una seconda intifada. Successivamente in Israele hanno prevalso le forze politiche più favorevoli all’intransigenza e agli insediamenti ebraici, e in Palestina le formazioni militari più estreme, fino agli attacchi missilistici del gruppo armato terrorista Hamas dalla striscia di Gaza.

BREVE BIBLIOGRAFIA

Bendiscioli-Gallia, Readings in World History, 1962

C. Pancera, La lotta del popolo palestinese, Feltrinelli, Milano 1969

S. Romano, L’Italia negli anni della Guerra Fredda, Ponte alle Grazie 2000

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