«L’EVENTO» DI ANNIE ERNAUX: LA STORIA DI UN ABORTO (recensione di Vittorio Panicara).

Pubblicato nel 2000 (ma in italiano soltanto nel 2019 presso «L’orma editore»), «L’Evento» di Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura nel 2022, è un libro fortemente autobiografico e ha riscosso un notevole successo di critica e di pubblico (con un film Leone d’Oro a Venezia). Racconta la storia di un aborto, quello della stessa Ernaux. E il libro, indubbiamente efficace, ci dice molto delle scelte dell’autrice.

L’aborto, un evento illegale

Nella Francia del 1963 l’aborto è illegale. Sono previste sanzioni severe per la donna che abortisce, per il personale sanitario e i farmacisti che l’hanno aiutata o hanno favorito l’aborto (rischiano di perdere la facoltà di esercitare la professione). Stessa cosa per chi incita all’aborto o promuove la propaganda anticoncezionale.
Nessuno osa parlare di aborto, la donna che cerca un medico per abortire è destinata a trovare l’ostracismo della società e tutte le porte chiuse, a parte quelle delle mammane. È ciò che accade alla protagonista del romanzo – una studentessa di 23 anni – dall’ottobre del ’63 al gennaio del ’64. Ne parla molti anni dopo, in occasione di una visita medica che la rassicura di non avere l’AIDS. Come detto, il romanzo non è altro che la narrazione di un aborto, diario e cronaca di un “evento” centrale nella vita di una donna. La donna in questione è la stessa Annie Ernaux. La ricostruzione dei fatti è precisa nei riferimenti oggettivi e nella descrizione della sofferenza della protagonista. Come dichiara Ernaux, la sua infelicità è il nascituro considerato “un fallimento sociale”; l’aborto è l’uccisione di una vita e di una morte allo stesso tempo.

Autobiografia e “doppio binario”

La narrazione dei fatti del 1963, piuttosto lineare, non è che l’«esplorazione» del passato. Ma è intercalata dalle riflessioni dell’io narrante, che, oltre a raccontare al passato l’aborto, narra al presente non solo l’esito negativo del test per l’AIDS, ma spiega la necessità di scrivere, di provare ciò che è successo, di denunciare un male sociale. “Esporre” il suo testo ai lettori significa esporre il proprio corpo. I due piani narrativi e i due piani temporali corrono paralleli verso uno scopo comune ben definito, quello di fare chiarezza su di un dramma individuale attribuendogli la dimensione che più gli compete, quella dell’impatto sociale e del dolore.
Un esempio di questa duplicità è il senso di infelicità di una donna che neppure osa immaginare che un giorno l’interruzione volontaria della gravidanza verrà depenalizzata, e che è addirittura stordita dalla mentalità corrente, convinta che l’aborto è un male perché così vuole la legge, o che è un male in sé e per sé. Nessuno mette in discussione la legge. Ciò che rimane nella donna tanti anni dopo è l’infelicità che avanza ineluttabile. Ma un’esperienza del genere deve essere raccontata, non taciuta, anche se potrebbe irritare o provocare repulsione, e non è una questione di buon gusto: la scrittrice (come afferma risolutamente in un intervento metalinguistico) ha il diritto inalienabile di scrivere la sua storia, e dovrà andare fino in fondo, altrimenti oscurerebbe la realtà delle donne, schierandosi dalla parte della dominazione maschile del mondo.
Ecco allora i particolari più crudi, che la narratrice “rivede” come se fosse lì adesso; è la memoria che la porta a scrivere, non senza qualche momento di esitazione. Il lettore, così, è come “gettato” nella vicenda, con lo squallore della mammana, la signora P.R. (tutti i personaggi vengono presentati con le loro iniziali e non con il loro vero nome), e i due interventi abortivi. L’aborto vero e proprio, vera scena di sacrificio, avrà luogo nei bagni di un cinematografo, dopo che la donna ha portato una sonda nell’utero per cinque giorni. Sarà ricoverata in una clinica, in un clima di riprovazione e di condanna morale. Subisce lo scherno del giovane chirurgo che le fa il raschiamento; quando lei chiede che cosa le stiano facendo, lui le urla «Non sono mica l’idraulico!», parole che continuano ancora a gerarchizzare il mondo dentro di lei. Lui si scuserà soltanto dopo essersi accorto che la giovane è una studentessa, non una donna del popolo. L’autrice sottolinea il classismo del medico, di cui rivelerebbe volentieri il nome e cognome se soltanto li conoscesse.
Annie, raccontando la sua vicenda con l’aiuto dell’agenda e del diario di quel periodo, rivive le terribili sensazioni provate con la sua memoria materiale:
Solo il ricordo di sensazioni legate a esseri e cose al di fuori di me […] mi fornisce la prova della realtà.

Scrittura “piatta” e (solo?) denuncia

Se il testo ci offre due prospettive, la vicenda del passato raccontata in una lunga analessi e i commenti espressi al momento dell’enunciazione, lo stile è uno solo: quello ben noto della scrittura piatta di Annie Ernaux (la definizione è sua). L’autrice ha dichiarato sempre di aver cercato e scelto il termine “giusto, esatto”, non quello “bello”. Lo conferma il carattere chirurgico delle sue parole, usate spassionatamente come un bisturi per sezionare la realtà. Niente figure retoriche, nessuna eleganza o ricercatezza, ma la durezza di uno stile acuminato, freddo, ma non emotivamente neutrale, come si sarebbe portati a credere. L’autrice interviene spesso con l’ironia e l’antifrasi: nello studio del ginecologo c’è una scritta, «i figli dell’amore sono sempre i più belli»: era una frase terribile; il racconto insignificante della vita normale di una sua amica studentessa è per lei terrificante: quello della sua esclusione dal mondo normale. Di fronte alla folla che la circonda per strada lei, in cerca di un medico che la aiuti ad abortire, si sente una delinquente. A volte è l’implicito che sembra “urlare” la disperazione della protagonista, come quando decide di fare da sola e mette due ferri da maglia in borsetta. Più tardi considererà la sonda che tiene nel ventre una presenza tranquillizzante, a patto che faccia presto ad agire: un’alleata alla quale rimproveravo soltanto di non agire più rapidamente. Nel momento dell’aborto vero e proprio la giovane vedrà penzolare dal suo sesso un piccolo bambolotto.
La materia è cruda, non si presta a nessuna forma di lirismo, e l’autrice-io narrante lo sa fin troppo bene: Nello scrivere talvolta devo resistere alla tentazione di lasciarmi andare al lirismo della collera o del dolore […] Solo restare più vicina possibile alla sensazione di un corso stagnante di infelicità.
Dunque, è impossibile per la scrittrice dire le cose in maniera diversa da come le vengono spontanee da quel terribile passato che sta rivivendo, prova per lei indiscutibile di verità. Ma i riferimenti all’infelicità che ancora prova al momento presente, non è solo la conseguenza dei ricordi, ma una condizione permanente che la sua lingua veridica getta in faccia al lettore: alla denuncia dei soprusi subiti si accompagna la sensazione di un’infelicità a cui l’ha costretta (ci costringe) l’assetto sociale e politico voluto dalle classi dominanti e dal “mondo maschile”. Una denuncia che non perde mordente nel momento in cui si universalizza, ma acquista un senso ulteriore, riferito al concetto stesso di vita. La signora P.-R., infatti, la mammana, ha strappato la protagonista a sua madre e l’ha gettata nel mondo, nel mondo che chiamiamo “normale”, un mondo di dolore. È a lei, dice l’autrice, la fabbricante di angeli, che dovrebbe dedicare il libro. Il paradosso finale è che solo così la protagonista è arrivata a desiderare di avere figli, accettando la violenza della riproduzione nel suo corpo e se stessa come luogo di passaggio delle generazioni. L’esperienza appena raccontata è servita all’autrice per rendersi conto di questa realtà e della caratteristica saliente della sua scrittura:
Forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri.

Conclusioni

L’opera di Annie Ernaux è stata definita un’autobiografia universale. In effetti l’autobiografismo caratterizza tutti i suoi libri, dai più importanti – Gli armadi vuoti, anch’esso sull’aborto, Il posto e Gli anni – a L’evento. In pratica, Ernaux non ha fatto altro che raccontare se stessa in tutte le sue opere, pratica che dovrebbe essere insolita in letteratura. Così recita la motivazione dell’attribuzione del premio Nobel: per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale.
Ora, nessuno può negare la sincerità dell’autrice, ma la letterarietà di un romanzo non può fare a meno di un io-narrante fittizio, “inventato”, con cui imbastire una trama ed esprimere significati. O per lo meno così dovrebbe essere. Il caso di L’evento permette di scoprire il modo in cui, almeno in questo libro, l’autrice supera il rischio della cronaca piatta dei fatti, o del patetismo a buon mercato fine a se stesso. La soluzione pare quella del “doppio binario”, dei due discorsi paralleli, la “narrazione” e il suo senso. Perché il tema centrale del romanzo è più quello della scrittura che quello dell’aborto vero e proprio: la necessità di scrivere non nasce soltanto dalla voglia di scoperchiare le nefandezze della società, ma di dimostrare che la scrittura (letteraria, per quanto piatta) è garanzia di autenticità e verità. E che la vita di Annie Ernaux “è” la sua scrittura, cioè la sua esistenza di scrittrice. Tra donna reale e scrittrice pare esserci un’assoluta identità.
L’obiettivo è ambizioso ed è in larga misura raggiunto, ma va incontro a qualche difficoltà. Per esempio, che fine fanno le psicologie individuali degli attori che attorniano la protagonista? Cosa prova o pensa P., lo studente che l’ha messa incinta? La mammana stessa è solo una fredda esecutrice di aborti? In altre parole, se la rete relazionale fra i personaggi è chiaramente delineata, ruoli, funzioni e intenzioni, con quali sentimenti ed emozioni interagiscono costoro con Annie? Inoltre, com’è possibile che la giovane donna rimanga isolata, o si isoli, in una società che in vari modi, dall’azione politica alla mera assistenza, potrebbe alleviare le sue pene? E, infine, da una parte è vero che le ragioni del femminismo sono sacrosante e ce lo dimostra il testo, ma dall’altra sembra venir meno una dialettica di idee, fino a rischiare il manicheismo morale e politico. Ma l’autrice di tutto ciò era consapevole, cosciente dei limiti del suo “fare letterario”, personale e pubblico insieme, non un modello ma un esempio.

NOTA BENE

Un’informazione sul film:

2 pensieri riguardo “«L’EVENTO» DI ANNIE ERNAUX: LA STORIA DI UN ABORTO (recensione di Vittorio Panicara).”

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