ARRANCAVA (racconto breve di Vittorio Panicara)

Arrancava. Si trascinava, anche se il pendio era tutt’altro che ripido. Lo sapeva, ma non poteva farci nulla. Da anni, ormai, era così. La parola, per lei nuova, le rimbombava da una tempia all’altra: «Mamma, ma tu avanzi troppo lentamente, dài, sembri arrancare. Datti una mossa». La strada per tornare a casa era in leggera pendenza, ma per lei era dura lo stesso, da sempre, ma soprattutto da quando era venuto meno Giuseppe. Anche lui faceva fatica a camminare, ma almeno lui era malato, molto. Lei invece… Veramente sana non lo era, ma per la sua età, dicevano gli altri, non poteva lamentarsi. Ma che modo di esprimersi era questo? Cosa voleva dire «non potersi lamentare»? Cosa ne sapevano gli altri di una vedova che non riusciva a trovare un solo angolo che non le ricordasse la figura dolente del marito? E anche prima del ricovero del marito c’era poco da festeggiare. Già, lei arrancava per il peso non degli anni, ma del nulla che rappresentava il culmine della salitella, quella casa vuota senza nemmeno i figli. Vuota di promesse, colma di rimpianti che rincorrevano stinti ricordi, emblema di desideri frustrati, margini infuocati della sua infelicità. A quale scopo vivere? Le speranze di tornare in Italia, nella casetta ai confini del paese natio, nell’assolato Salento, erano spente da molto tempo, da quando i tre figli maschi si erano “sistemati” andando a vivere in città lontane. Fredde. Lontane solo qualche chilometro, certo, ma quando una distanza certifica la fine dei sogni, percorrerla è sempre un calvario. E infatti, cosa voleva dire “sistemarsi”? Un mestiere, sì, una famiglia, in un caso, certo, ma non in Italia, dove sarebbero voluti tornare, parlando il dialetto con cui erano cresciuti, non l’orribile svizzero-tedesco, mai ben imparato. Capiva le ragioni dei suoi ragazzi, ma ricordava il dolore di Giuseppe per la loro partenza, rivedeva lui che cercava inutilmente di sfogare la sua rabbia con i lavori dell’orto, da cui estirpava le erbacce, ma non la nostalgia delle partite a briscola davanti a un bicchiere sincero di Primitivo. Già, l’Italia…

Maria riandava con il pensiero alle settimane trascorse ogni tanto, da quando erano in pensione, nel paesello della loro gioventù. E inghiottiva amaro. Avevano casa e questo aveva scatenato l’invidia dei pochi parenti rimasti e di qualche sparuta amicizia. Non volevano credere che lei e Giuseppe, gli “svizzeri”, non potessero concedersi certi lussi, come andare al cinema o al ristorante; secondo loro non volevano far vedere che erano ricchi, e quindi erano tirchi. Non erano più dei veri e propri paesani e glielo dicevano pure, senza mezzi termini. Alcuni per strada negavano loro il saluto. La donna aveva sentito emergere e gonfiarsi sempre più una sensazione di vuoto, che non era più nemmeno angoscia, ma mancanza di qualcosa a cui non si riesce a dare un nome. Giuseppe non stava meglio di lei, anzi. Il fratello non gli dava più notizie di sé da quando “Peppino” non era venuto ad accudire la madre in fin di vita. Giuseppe aveva avuto ottime ragioni – non poteva chiedere le ferie, la ditta stava per licenziare e non era il caso di fare passi falsi – ma il fratello non aveva voluto credergli. Del resto, non aspettava altro per allentare o magari troncare i loro rapporti. Maria sapeva che il marito ne aveva sofferto, ma non aveva potuto aiutarlo. Ma è possibile, pensava, che chi rimane nella propria “patria” non riesca a comprendere quanto si soffre quando si è lontani dai propri cari che stanno morendo? Si può essere più deficienti? Neppure lei aveva qualcuno di caro a cui confidare le sue pene, amica o parente. I genitori erano morti già da più di vent’anni e la piaga era ancora aperta, perché anche lei era potuta arrivare solo a cose fatte. E in Svizzera…

Dopo quarant’anni di permanenza avevano pochi amici. Gli svizzeri in fondo erano gentili, non tutti ma molti. C’era un vicino, un ex professore, che sapeva un po’ d’italiano e loro scambiavano spesso due parole con lui e con la moglie, ma sapeva troppe cose e loro non si riconoscevano al suo livello. Qualche parola in giardino, uno scambio veloce di favori, una marmellata, un testo tedesco tradotto o spiegato, un saluto furtivo. Gli altri vicini erano piuttosto riservati, ma non ostili. È vero che la cittadina svizzera era piena di italiani immigrati e di giovani italiani di seconda o terza generazione, ma questo non migliorava la situazione ed era meglio farsi i fatti propri. La gran parte proveniva da un’altra regione e parlavano il loro dialetto stretto, che Maria e Giuseppe non capivano. Ce ne stavano di connazionali che si esprimevano in lingua, ma si erano accorti che restavano ugualmente da una parte, preferendo coltivare le amicizie con gli svizzeri. In fabbrica Giuseppe si era accorto che quello che si diceva di alcuni immigrati italiani meglio integrati, e cioè che si facevano amici i padroni per fare carriera, purtroppo era vero. Se n’era accorto a sue spese. Comunque, finché le gambe tenevano, potevano fare una passeggiata nei dintorni. La campagna non mancava, i sentieri erano tutti facili e ben curati. Oppure potevano viaggiare con i mezzi pubblici, treno e corriera funzionavano bene ed erano puntuali. Niente a che vedere con i mezzi di trasporto pugliesi.

Si trattava di una calma piatta che nascondeva l’abisso di un’esistenza che si negava per mancanza di stimoli. Sopravvivere, inoltre, non è difficile, ma occorre essere in buona salute. La malattia di Giuseppe, la lunga degenza con le visite giornaliere sempre più tristi e l’avvicinarsi della morte avevano sconvolto l’equilibrio di Maria. I silenzi di Giuseppe, con tutti quegli aghi nel corpo mentre era in un letto bianco e non riusciva a parlare, le avevano riempito i giorni e soprattutto le notti insonni. È possibile riempirsi di vuoto? Nell’uomo sì. Cosa poteva immaginare Maria, sola nel suo letto di notte, per compensare l’immagine del marito ansimante e sempre meno cosciente? Aveva forse un’attesa, un desiderio che non fosse la guarigione del marito? Maria era astemia, altrimenti la bottiglia sarebbe venuta in suo soccorso. Un bicchiere d’acqua era il massimo di distrazione dalla sua pena che potesse concedersi. Ma si sa che la sventura non conosce limiti. Una telefonata l’avvertì che Giuseppe stava molto male, era spesso incosciente, peggiorava…

Mentre arrancava rivedeva il funerale celebrato di fronte a pochi presenti giù in Puglia, qualche cugino e qualche amico di lunga data, venuti più per dovere che altro. I suoi figli avevano organizzato tutto, dal costoso trasporto della salma al sacerdote, alla sepoltura. Che rabbia quel sole accecante, da cui si era separata quarant’anni prima giurando a se stessa che sarebbe tornata: cosa aveva da festeggiare? Perché il prete era così sbrigativo? Certo, per lui Giuseppe era un signor Nessuno… Meglio non pensarci. E i figli, anche se si preoccupavano per lei, avevano i loro problemi e speravano che la madre se ne stesse buona da una parte, senza creare difficoltà. Lei capiva, la vita era come quella strada pericolosa che collegava il suo al paese vicino, quando mettevano, a inizio autunno, delle croci ai lati laddove c’era stato un morto per incidente. Sapeva di essere un peso e qualcosa di inutile. Era chiaro. Ecco perché quella salitella le costava tanta applicazione, tanta fatica: il vuoto che la schiacciava veniva da dentro e non poteva frenarlo.

Il giorno dopo si spense mentre dormiva, navigando nel suo nulla.

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